Un orologio d'occhi e capelli
Giuseppe Aragno - 19-08-2008
Dallo Speciale Racconti



Giorno dopo giorno l'incantatore di serpenti andava ormai realizzando il suo disegno. Alla prima riunione con Achille e Paolo, cominciò da Maria:
- Per carità, è volenterosa, leale, rigorosa. Lasciatemelo dire, però, ora che non c'è e siamo soli, è rigida e schematica. Brava, non lo nego, addirittura una forza se si va allo scontro. Ma il sindacato, compagni, lo sapete, ormai è raramente scontro e Maria ci viene meno proprio sul terreno del compromesso, quello sul quale, gratta gratta, alla fine si misura davvero il sindacalista.
E giù, nel silenzio inspiegabile degli altri, la tirata retorica sui modelli nobili: il "vecchio Di Vittorio, venuto su dalla lotta di classe, dalle leghe contadine nella Puglia dei caporali e dei mazzieri", Silvio Trentin, "che conobbe il tempo degli eroi e dei martiri", "Luciano Lama il partigiano giunto alla testa del sindacato", e perché no?, l'astro nascente, Sergio Cofferati, "l'uomo della concertazione".

Assente l'imputata, servì a ben poco che scattassi irritato:
- Maria gode di un prestigio incondizionato tra tutti i lavoratori che non vengono al sindacato solo per i punteggi, le graduatorie e la pensione. E sono i migliori. Ha guai con la consulenza, lo so, ma quelli chi non li ha? Nella mia zona, a Pozzuoli, i rari "compagni" esperti sono sull'Aventino perché vengo da Napoli e loro vogliono invece dirigenti locali ...
- Tu però - interrompeva Clara - non sei mai disposto a mediare. Noi cerchiamo un sistema bipolare, interlocutori stabili, governabilità, presidenzialismo. Tu sei fermo al tuo antifascismo, e sei troppo estremista.
Clara riteneva quell'accusa l'arma vincente nel sindacato di Cofferati e non aveva dubbi: chi ostacolava i suoi piani era un estremista. La "concertazione", il dogma del sindacato "nuovo, talora l'aiutava e trovava sempre chi si affrettava a vantare titoli di nobiltà riformista. In quanto a me, la cosa mi pareva ridicola e penosa e, più che costringermi alla difesa, mi spinse all'attacco.
- E' un mistero glorioso - replicai ironico - e sarei felice se me lo chiarissi. Da quando il Pci ha fatto la fine della neve al sole, qui non solo chiudiamo ogni varco a sinistra, ma quelli che fino a ieri difendevano persino il Togliatti del '56 e si stupivano del "puerile sessantottismo" di chi criticava i comunisti, ora si meravigliano molto se spendi una parola per la Costituzione antifascista e ripeti pari pari le cose per cui si esaltavano poco tempo fa. E' paradossale ma è così. Tutti quelli che erano comunisti come te, Clara, ora quando vogliono zittire qualcuno lo guardano come fosse un marziano ed esclamano sprezzanti: ma allora è vero, tu sei proprio un estremista comunista!
Clara non rispose, Paolo, che pure coi comunisti ce l'aveva, ricordò a tutti le urgenti necessità organizzative e Giovanni si mise a scartabellare tra i suoi mille documenti. La discussione morì così, come se non fosse mai iniziata.

Quando raccontai tutto a Maria, non si stupì. Si aggiustò sulle spalle con noncuranza la bella blusa di cachemire, sedette alla sua scrivania piena di circolari, tessere e opuscoli di propaganda e quando cominciò a parlare strinse gli occhi scuri e profondi, come se le parole le producessero dolore.
- Tutto sembra ormai seguire uno schema studiato a tavolino. Facci caso. Quando si tratta di dividere il lavoro, Giovanni assegna a Clara "casi" facili facili, successi sicuri e, se è certo di poterla assistere a tempo pieno, costruisce per lei vertenze destinate a far rumore, quelle per le quali mette in scena la lotta, dopo che l'accordo è già fatto, sicché la notizia giunge fino al decimo piano ed è un coro: "Clara fila già come un treno".
Per quanto ne sapevo, Clara non filava affatto come un treno. Gli iscritti della sua zona erano solo tessere da far valere ai congressi, favori in cambio di consenso e rapporti personali da curare con un'attenzione direttamente proporzionale alla forza del tesserato. In prima fila, i capi d'Istituto, in ultimo i cani sciolti e chi pensava con la propria testa.
-Te lo dico ora che siamo soli - si lamentavano talvolta i rari iscritti che avevano ancora voglia di pensare - e puoi credermi. In una vertenza, quella se ne frega di chi ha ragione o torto. Si preoccupa solo dei rischi per la sua immagine e del "peso politico" delle parti in causa. La guerra col più forte non la fa, puoi star certo, ma non immagini quant'è brava a incantare il più debole. E' incredibile, gli fa del male, ma quello rimane convinto che ha lottato per lui con le unghie e coi denti.
Grazie a Giovanni, Clara era ormai portata in un palmo di mano.
- Ha una notevole capacità di muoversi secondo le regole del gioco e a volte incanta - sosteneva compiaciuto Giovanni.
In realtà, non c'era riunione confederale in cui non avesse da dire qualcosa e Achille, che in certe cose era ritenuto ancora un maestro, sottolineava con tono da intenditore e occhi che parlavano, quello che, a suo modo di vedere, era il maggior pregio degli interventi di Clara:
- E' allo stesso tempo così ortodossa da dimostrare devozione per la maggioranza e tanto sibillina da lasciare in qualche modo una porta aperta alle posizioni difese dall'opposizione.

- "C'è del miracoloso nelle diavolerie, occorre riconoscerlo - pensavo spesso, tra me e non solo - e sarebbe stupido negarlo. Clara ha appreso con una rapidità sorprendente il linguaggio di quanti vegetano da tempo immemorabile nell'organizzazione. Non è cosa da tutti. E' un linguaggio nato da una dura selezione delle parole, fatto apposta per consentire toni bassi quando, di norma, ti aspetti vibrazioni acute e per salire alle stelle quando il tema è di quelli che stanno volgarmente a terra. Parole usate con perizia per non dir nulla in un ambiente in cui i significati oscuri sono letti per convenzione come sintesi di tutto quanto bisognerebbe dire e non va detto.
A queste mie considerazioni Maria replicava tagliente:
- Non ci sono dubbi. I dibattiti nelle riunioni confederali con bancari, paramedici, pompieri e teatranti, sono diventati la parte principale del lavoro di Clara. Ed è bravissima: senza sapere nulla della scuola, parla di scuola a gente che di scuola non sa e non intende sapere niente.
- Il copione è questo - le facevo notare. Se lei parla d'insegnamento senza aver mai insegnato, rari incendi ha spento il pompiere che l'ascolta, pochi malati ha curato il paramedico che affianca il pompiere e una banca per caso, e per breve tempo, è entrata nella vita del ragioniere che tutela i bancari. In quanto al sindacalista degli attori, la sola recita riuscita della sua vita è quella che da anni replica sul palcoscenico del sindacato rivolto al pompiere al paramendico e al ragioniere che applaudono o fischiano puntualmente, a seconda del clima che si registra tra maggioranza e opposizione nei piani alti del grande palazzo sindacale.

Fuori dal palcoscenico dell'organizzazione, quando era di scena nelle assemblee sui posti di lavoro, la musica cambiava. Il ruolo della "collega esperta", che ti guarda negli occhi e ha già capito tutto, non era scritto per Clara e spesso, quando non c'era, gli insegnanti che se la trovavano a scuola si lamentavano:
- Recita a fatica, su un copione che non conosce bene, la parte sbagliata di chi prima s'imbosca e poi pretende di spiegarti come si sta in trincea...
Le cose, naturalmente non andavano mai com'era previsto negli opuscoletti di propaganda, letti a bocconi e spizzichi tra le riunioni di dirigenti, gli incontri con l'assessore e la recita quotidiana della fatica insostenibile di una "povera sindacalista che ha un solo interesse vero: i lavoratori". Paradossalmente, in assemblea, accadeva che l'interesse vero, i lavoratori, non capivano nulla "degli sforzi e delle battaglie durissime del sindacato".
- Parliamoci chiaro, compagni - sbottava allora Clara, gettando la maschera - Meglio intendersi bene. Tra noi possiamo dirlo: voi siete indifendibili! Mesi di ferie, quattro, cinque ore di lavoro vero in un giorno, la doppia attività che fate al nero! E non parliamo di scioperi. Chi li fa? Voi? Ma stiamo scherzando? Voi venite al sindacato solo per gli affari vostri: il ricorso al preside, il calcolo della pensione...
- Ma è quello che ci consentite - replicava qualcuno - quello che volete! Noi non ci siamo, voi non ci volete!
M'ero trovato più volte a far da scorta a Clara, intimorita dal vento ostile della contestazione, e glielo avevo detto:
- Cambia tono, lasciali parlare. Assieme agli egoismi e alle spinte corporative, verrà fuori un mondo. Ci sono insegnanti che hanno dentro una incredibile umanità. Gente che si lamenta, che è stanca e che però non invecchia, perché stare coi giovani ringiovanisce. Lasciali lamentare. C'è di che imparare.
Costretta a mollare la presa, Clara, che aveva provocato la valanga, la vedeva scendere a valle e ingigantirsi, ma non si scomponeva e giungeva a minacciare.
- Ora, però, sei tu che ne rispondi...
- Certo - replicavo - al sindacato ne rispondo io. Tu però ascoltali, sennò nelle scuole non ci metti più piede.
E la valanga ci giungeva addosso.
- Retribuzioni da fame, altro che stipendi europei!
- Troppi alunni e troppe carte. Noi non siamo burocrati o bambinai. Così non diamo né quello che dovremmo, né quanto potremmo...
- Il capo d'Istituto ormai fa il manager. Qui soprattutto, dove comanda la camorra, a noi serve uno che sappia di scuola e ci faccia da sponda...
- Vi presentate, qui, e ci venite a parlare dei miracoli dell'autonomia, ma a che serve progettare, se poi si tagliano i fondi e non c'è il becco d'un quattrino?
- Ci avete ridotto a piazzisti: facciamo scuola rincorrendo le richieste dei genitori che hanno soldi. E quelli che i soldi non ne hanno, di quelli che ne facciamo?
- La verità è che siete d'accordo con la Confindustria! Volete insegnanti che fanno la guardia armata del capitale una scuola che produca manovali per i padroni e spenga l'intelligenza critica. Elettroencefalogrammi piatti...
In quel confronto duro, Clara era costretta a sparire e tanto bastava: per Giovanni io e Maria eravamo fumo negli occhi. Certo, nella discussione che puntualmente si apriva poi tra noi, la metteva con apparente noncuranza sul piano della "disciplina" - "abbiamo una linea, non ci si può presentare divisi" - e fingeva d'ignorare i motivi del dissenso, ma sapeva che la frattura era profonda e metteva automaticamente in crisi un sindacato che aveva voluto tra i suoi dirigenti gente come me e Maria, quando lui e Achille, per una volta apparentemente alleati, erano riusciti a far passare l'idea che ormai c'era un disperato bisogno di volti nuovi, di gente che, per dirla nel misterioso linguaggio dei sindacalisti, veniva dalla produzione.

In un primo tempo, Maria aveva trovato l'idea bella e stimolante. Erano i tempi in cui Giovanni era per lei il lavoratore instancabile al servizio dei lavoratori. "L'uomo della solidarietà", come lo chiamava. I tempi però erano cambiati e Giovanni, da santo, s'era fatto diavolo.
- Un'operazione d'immagine - mi ripeteva ogni volta che poteva - una sorta di lifting per via indiretta che, rinnovando quanto più possibile il dato esteriore, ha lasciato immutata la sostanza. Giovanni e Achille sapevano perfettamente che l'operazione rischiava di aprire un duro scontro dentro e fuori dell'organizzazione, ma ci considerano due marionette, due pedine facili da manovrare.
- Se è andata come dici, - replicavo - è proprio vero: la sorte acceca chi destina alla rovina! Se ne accorgeranno.
Ragionando insieme, qualcosa cominciammo a capire. Giovanni, deciso a sostenere Clara, non aveva dubbi: l'inesperienza, il senso della disciplina, il disinteresse e la lealtà che avevamo mostrato nelle battaglie del Comitato Direttivo erano per Clara una autentica garanzia di successo: il paragone ci avrebbe schiacciati. In quanto a Claudio, pensava Giovanni, l'invincibile odio per Achille avrebbe avuto senz'altro il sopravvento su ogni altra considerazione, impedendogli di prendere posizione.
Achille, per suo conto, che Giovanni considerava un "padrino" ormai troppo debole e squalificato per poterci sostenere con efficacia, non aveva per noi una considerazione sostanzialmente diversa e, come Giovanni, era convinto di poter utilizzare la nostra ottima reputazione a suo vantaggio, per mettere in difficoltà sia il padre-padrone responsabile della consulenza, che Clara, troppo piena di sé e troppo impresentabile, per reggere al paragone con la buona reputazione di cui godevamo tra gli iscritti. Una reputazione, che avrebbe costretto Paolo alla neutralità e che la sua esperienza avrebbe saputo certamente sfruttare per giungere ad un successo tale, da restituirgli il prestigio perduto. Chiunque dei due avesse vinto, io e Maria avevamo il destino segnato: se mai ne avevamo, le nostre qualità imponevano al vincitore, la nostra immediata liquidazione. E non c'era dubbio, su un punto Giovanni ed Achille erano perfettamente d'accordo: buona tutt'al più per essere utilizzata strumentalmente in uno scontro di potere da dirigenti che intendevano entrambi abbagliare la base nei rapporti esterni all'organizzazione, all'interno del sindacato, l'onestà intellettuale costituiva un limite insormontabile per ogni progressione di carriera.
Quali che fossero i calcoli che ognuno dei protagonisti della vicenda aveva fatto su di noi, rimaneva un fatto: mentre io e Maria eravamo insegnanti chiesti in prestito alla scuola dal sindacato, Clara era un quadro che il sindacato stava tentando di imporre alla scuola. Checché ne pensassero Giovanni, Achille e i loro rispettivi alleati, non si trattava solo di una significativa questione d'immagine: le ambizioni, i sogni, le speranze che ognuno di noi portava con sé segnavano dei veri e propri confini. Si trattava di diversità che, inspiegabilmente sottovalutate, potevano diventare la variabile impazzita, capace di mandare a carte quarantotto la sottile strategia che, in vista di una resa dei conti, aveva cementato la momentanea alleanza tra il funzionario disperato bruciato da Roma e deciso a rifarsi l'immagine e l'incantatore di serpenti, che proprio sull'immagine, aveva costruito le sue fortune. Tutto era fondato su un'ipotesi data per certa e non verificata: i due pivelli non erano in grado di iniziative autonome e non avrebbero nemmeno capito ciò che realmente accadeva alle loro spalle.

Bene o male, io e Maria conoscevamo la lingua dei lavoratori e portavamo al sindacato la voce della gente e i suoi problemi concreti, ma questo paradossalmente procurava a noi stessi e ai nostri impotenti e malaccorti patroni un numero crescente di nemici annidati in quell'organizzazione in cui, al contrario, Clara capitalizzava consensi direttamente proporzionali al dissenso che registrava nelle scuole, dove difendeva la linea del sindacato, le analisi, le astrazioni degli "esperti" e i loro inaccettabili compromessi con partiti politici sempre più lontani dalla gente. Se questo fosse un elemento di forza o di debolezza in una guerra che mi pareva ormai inevitabile non avrei saputo dire. In realtà, nulla poteva cancellare la sensazione di estraneità che mi andava assalendo. Quella che si profilava minacciosa all'orizzonte non era la mia guerra. Solo questo sapevo. Se una guerra non è la tua, pensavo sempre più spesso, non importa chi vince. Per quanto ti riguarda, l'hai persa prima ancora che sia cominciata.
Ero tremendamente stanco. Mi mancava la ricerca, mi mancava la scuola, mi mancavano le certezze con le quali c'ero arrivato, le esperienze che le avevano smantellate, le speranze puntualmente rinate e i dubbi che tornavano assieme alle delusioni in un ciclo che si ripeteva da anni Mi mancava il filo teso tra due mondi sul quale per anni m'ero tenuto in equilibrio a mani larghe, sul confine invisibile che corre tra chi impara e chi apprende; mi mancava l'abitudine alla tensione fisica e morale, alla quale m'ero abituato fino al punto che ora, mettendo i piedi a terra, mi sentivo prendere da una sorta di vertigine di stabilità che mi metteva addirittura paura. Mi mancavano soprattutto le lotte in cui credevo, i compagni di avventura del comitato di quartiere e ciò che negli ultimi tempi m'era sembrato addirittura un peso: l'affetto sincero, tempestoso e disperato di ragazzi che avevano cognomi sempre uguali ma non erano mai gli stessi; fratelli, sorelle, cugini di alunni che entrando e uscendo dalla mia vita, per anni erano stati il mio vero orologio. Un orologio fatto d'occhi e capelli che mi dava la misura del tempo che se n'era andato tra i sogni impossibili della giovinezza e il mondo senza sogni della maturità.


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